Critica artistica

Achille Pace, Alfredo De Benedetti, Antonietta Caruso, Nicola Sorella, Silvana De Gregorio, Anna Francesca Biondolillo, Giorgio Falossi, Sandro Serradifalco, Leo Strozzieri, Carlo Fabrizio Carli, Dino Marasà.

NICOLA SORELLA

Scritture Celesti

Blu. Il blu del simbolismo. Mallarmèe, Quenau, Kandiskij. Blu profondo. Blu oltremare – definizione piuttosto metafisica per un semplice pigmento! - blu vorticoso, blu insondabile, blu memore. E’ la vera materia di quest’opera ancora in azione, sorpresa nella sua nascita continua come in un fotogramma provvisorio. Si inabissa la poesia nel blu inquieto dei nostri giorni, dei giorni avvenire, dei giorni fluiti con la loro coda di comete, lievi e incise. Ma anche blu celestiale, oppure azzurro, dove volentieri si fondono mare e cielo, o la terra incerta all’orizzonte con la volta onnipresente e lontana; e l’azzurro del cuore, l’azzurro interiore, dove risiede la profondità ultima, l’indecifrabile fondo dell’essere. Qui l’apparizione del bianco, quasi una trafittura, è il cammino della luce e, contemporaneamente, il dispiegarsi del mistero, del vuoto che anela al pieno, e che culmina nel volto umano, immagine stupita. Il celeste è materia, il bianco è luce che la plasma, nella debole vigilia dei sensi che faticano a ritrovare il bandolo del particolare incontrovertibile, dell’avvenimento necessario.
Così, dal profondo, scolpito in rilievi di luce e ombra, emergono le rapinose scritture di Luigi Petrosino. Scritture celesti, appunto. Dove il proliferare delle forme si specchia, per singolare contrappasso, nella reductio ad unum dell’infinita varietà dei colori ai due essenziali, stadio sintetico di differenti percorsi espressivi tentati in passato. Una semplificazione arbitraria, che sa di estrema libertà e di tensioni, di misteriosi trascorsi, di straniamenti e mai esplicite visioni, di purezze ricercate e necessarie, di salvataggi sperati, di sortite e di fughe dal bailamme culturalista e delle scorie esistenziali che, per continuo accumulo, edificano parvenze di coscienza. Ma il caos, si sa, non tende naturalmente all’ordine.
E’ soltanto la coscienza del mondo, il punto discriminante che è l’io umano, a desiderare, nel cuore magmatico del caos, il refrigerio del cosmos. Tutte le ideologie, sorprese nella luce fissa della contemporaneità che la tela restituisce potentemente e che il cuore esige per natura, restano estranee e giudicate, come verruche piantate a forza in un viso, come relitti sospesi ad altezza o profondità vertiginose dalla molteplicità dei piani percettivi: l’errore che ha disseminato di schianti il secolo finito, lascia traccia di se nella mano stessa dell’artista. Rilke diceva di non parlare delle cose, ma di quello che era diventato attraverso di esse. Un punto ardente, con a tema il desiderio.
Così Luigi Petrosino vela e insieme svela il prima, l’antefatto che rende giustizia all’estrema tensione che percorre le sue opere. Un artista fa sempre del male, a sé stesso e agli altri, liberando contrasti in un certo spazio. Ed è difficile ferire nel modo giusto, provocare cioè il male necessario, non quello inutile. Questa è l’esattezza: dare il dolore giusto. Tuttavia neanche quest’ estrema giustizia può allontanare definitivamente, per l’artista, il rischio di partecipare attivamente al disordine da cui cerca di affrancarsi. Sappiamo che il caos esiste, è reale, ma pensiamo che l’esserne consapevoli ci metta al riparo dalle sue insidie, che il nostro giudizio sulla realtà sia una specie di ombrello. E’ questo esattamente il dramma di ogni umanesimo: l’impossibilità a portare il mondo. Resta l’adesione irrazionale al presente, o la paura del presente, o soltanto il rifugio nel passato. Nell’assenza del giudizio non si dà comunicazione: solo variazioni, magari originali e sontuose, sul tema principale del nulla: la menzogna cambia maschera, diviene innocente, e la violenza più terribile e inconsapevole. Un mondo di bambini senza padri: dopo le macerie dell’idealismo il rischio, tutto da attraversare, è quello di scrivere sull’acqua dell’inappartenenza.
Ma la carta che non ti aspetti, quella decisiva, Petrosino la gioca alla fine. Come in un haiku giapponese, si snodano sillabe corte e secche come rami, ma spesso anche liquide e volatili irriconoscibili giunture in cui si articola la mancanza di un corpo: cifre di liste della spesa, ambigui monogrammi, brani improvvisi di appunti, in un brogliaccio incandescente, splendido a trascolorare in murales, dove la scrittura sbalzata a delineare cornici fittizie provoca allucinate geometrie e scivola in scorci lunari, pianure fosforiche, con luminarie di segni alfanumerici trascinando la fantarcheologia di capitelli e di colonne mozze nella stessa forma-materia della civiltà industriale e della quotidianità più bassa: che grandioso paradosso, queste immagini strappate alla routine e collocate a viva forza nell’elemento celeste dello sfondo. Proprio qui emerge, con il valore creativo del bianco, la grande e straordinaria forzatura, l’impeto tenace del desiderio.
Si, d’accordo: viviamo in una terra di parole fossili, autosufficienti, insensibili, che possono essere soltanto collezionate: segni, frammenti di un unico discorso originario; un sole sottomarino sembra illuminarle, e dai loro accoppiamenti proliferano esseri immaginari, la loro umanità residuale stravolta nelle pieghe di un incombente crollo planetario. Ma è un attimo, l’attimo di un soprassalto, come uno stupore: l’ultrasuono dell’io, la possibilità di un incontro tra chi traccia la linea e chi la vede, tra chi parla e chi ascolta, tra chi è dentro la lingua e chi né è rimasto irrimediabilmente fuori, e la scintilla scoccata per la grande deflagrazione. Ecco il dramma di una disperata speranza, che con il verso di un premio Nobel del 1951, lo svedese Par Lagerkvist, suonerebbe pressappoco così: Ma come potresti tu ricordarmi. Come potrebbe il mare ricordare la conchiglia nella quale una volta mormorava?
Come potrebbe? Eppure, in stridente contrasto con la metafora del quadro che replica vertiginosamente se stesso, quei volti, così idealizzati nelle loro epifanie dolcissime, che sembrano scaturiti da corrispondenze inaspettate, tentano di nuovo e sempre, non senza un’ingenua baldanza, il loro coup de dés, che è parlarci ancora di carne e sangue, luogo del destino e della vita, avviata alla corruzione e alla morte e pur sempre a questa irriducibile.
Qui l’autore o il poeta figurativo, già scampato al canto delle sirene, è decisamente incamminato verso il linguaggio, sta uscendo dalla sua e dalla nostra solitudine.
E’, questa di Petrosino, una pittura fortemente connotata in senso conoscitivo: una pittura di indagine esistenziale in cui, attraverso il repertorio di segni e di forma, di brani di civiltà perdute o non ancora consumate per intero, emerge il dato unificante che è l’azione infaticabile di un io alle prese con la mimesi geometrica e figurativa del reale o di ciò che ne resta. Un io teso nel desiderio che invoca, quasi sostanziando il suo grido di spazi linguistici spogli di senso apparente, un senso ulteriore, che nel quadro non si dà se non per sottile analogia con ciò che lo possiede e lo nutre.
La conoscenza è un incontro tra l’energia umana e una presenza. E’ un avvenimento in cui si assimila l’energia dell’umana coscienza con l’oggetto. Come si produce tale unità? E’ la domanda affascinante di fronte alla quale abbiamo potere fino ad un certo punto. All’interno della quale ognuna di queste rappresentazioni rischia di farci inoltrare di un passo.

Febbraio 2002


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